Ricordo lenzuola arrangiate ma pulite, e tende bianche e fresche, stese lì ad asciugare. E le sue mani. Ricordo.
Chiare, pallide quasi, con unghie corte, per nulla curate. Grandi, autorevoli, e allo stesso tempo delicate, vulnerabili forse. A tratti ancora indecise, mi carezzavano. E subito dopo risolute, coraggiose, padrone, mi aggredivano violentemente con piacere, senza rispetto, senza amore.
Ed io mio corpo, oggetto segreto dei suoi più intimi capricci, come un pianoforte. Ed i miei fianchi, tasti bianchi; e la mia schiena, tasti neri. La, fa, mi, ed ancora: la, fa, mi, ed ancora e ancora; e poi la, fa diesis, re; ed ancora e ancora...
Le sue mani virilmente orchestravano il mio corpo, ogni mio piccolo ed incontrollato movimento, tutti i miei inconsapevoli e convulsi sospiri, in quel rifugio arcano, immerso nell'oro, ai confini del suo mondo, al centro del mio mondo, testimone dell'ennesimo rapporto clandestino, senza importanza; testimone della mia ennesima debolezza, fuga d'amore. Per me, illegittima consorte, fu quanto di più gravemente romantico.